Sunday, February 27, 2011

RIVOLUZIONI, MONDO ARABO E BOOMERANG ECONOMICO

‘ECONOMICS OPIUM OF NATIONS’


LA VÉRITÉ NE PEUT ÊTRE CONTENUE DANS UN SEUL RÊVE'
PROVERBE ARABE

Si tratta dell’incertezza, della più amplia e profonda incertezza, dalla caduta dell’Impero ottomano. Si tratta di un terremoto che potrebbe, nel riassestamento, configurare un nuovo mondo, politico, sociale, religioso. Economico. Arabo. Una nuova proposta di panarabismo che, fin’ora, si riassume nel sovvertimento di precari equilibri. Una proposta mai realizzata, fin’ora, nella Storia, che non permette lungimiranti predizioni ma sì serie considerazioni, da tempo (troppo) sottaciute.
Tunisia, Algeria, Egitto, Giordania, Bahrein, Yemen, Libia, chiedono democraticamente benessere. Laddove ‘democraticamente’ sta per mezzo del potere popolare. E parrebbe legittimo. E parrebbe sacrosanto, ‘cristianamente’ e ‘islamicamente’ parlando. Peccato che la rivendicazione del minimo insindacabile dovuto, per la fedeltà allo Stato, sia una bandiera che, questa volta, non si adagia e nasconde dietro a una religione particolare ma, anzi, si fa forza e si universalizza in prima linea, oltre frontiera, a braccetto con principi cardine dell’economia più spicciola, da sempre.
Un’elevata percentuale del fabbisogno mondiale di oro nero, è sedata dalla mezzaluna araba: Algeria 2.5%, Libia 2.1%, Egitto 0.8%, Siria 0.5%, Iraq 2.8%, Kuwait 3.0%, UAE 3.3% e Arabia Saudita 11.6%. L’Europa ne dipende drammaticamente e l’Italia si fa modello, a proposito, con una dipendenza petrolifera dalla Libia pari al 23% della richiesta nazionale. Senza contare le importanti partecipazioni libiche in enti chiave dell’economia italiana, quali Unicredit, Finmeccanica o Juventus.
Ci si chiede, allora, quali siano le conseguenze che avanzeranno da quest’ultima, imponente, catastrofe politica. Quali conseguenze sociali, ma soprattutto economiche - quali conseguenze per il PIL dei Paesi della produzione, ma soprattutto per quello dei consumatori. Complicata prognosi e dolorosa diagnosi. Il 25 febbraio scorso, l’Organizzazione Internazionale dell’Energia ha organizzato un incontro di ben ottantasette delegati di Governo appartenenti a Paesi membri del Forum Energetico Internazionale. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OECD), per ammortizzare i colpi, tende una mano alle restie India e Cina consapevoli, queste ultime, di ricoprire un ruolo sempre più cruciale nello scacchiere internazionale.
‘Chi di economia ferisce, di economia perisce!’, sembrerebbe il caso di affermare. E infatti, proprio Paesi che hanno permesso il fiorire del benessere ‘occidentale’, oggi lo rivendicano, oggi lo richiedono a gran voce per sé. E se filo-occidentalmente parlando è impensabile dargli torto, egoisticamente, umanamente parlando, le risorse non sono illimitate: se il progresso equivale a crescita, se l’Occidente continuasse a profetizzare progresso come sinonimo di crescita e di consumo, avrebbe già perso.
Ma se può apparire semplice, a primo sguardo, un cambio di rotta nelle politiche economiche, come del resto molti prospettano per la stessa EU e auspicano, la Storia e i fatti denunciano il contrario. Come non ricordare, per esempio, la stessa rivoluzione industriale; come non ricordare il sorpasso di Germania e di Stati Uniti, novizie, all’inesorabile momento di innovazione tecnica, ossia, alla necessità di conversione delle macchine di produzione in nuove, più sofisticate che avevano portato all’apice proprio la pioniera Gran Bretagna. La strada in salita, i cambiamenti necessari. Si riparte da dove ci eravamo lasciati.


Appunti mediterranei di Caterina Pikiz G. cpikizgattinoni@live.fr
The Devil’s Advocate for The Post Internazionale
Roma, 27 febbraio 2011